venerdì 23 gennaio 2009

Barbara Leoni

Saggio.

Elsa Morante : Aracoeli, il romanzo della Grazia perduta

“Così sperso tra i vimini e le stuoie
grondanti, giunco tu che le radici
con sé trascina, viscide, non mai
svelte, tremi di vita e ti protendi
a un vuoto risonante di lamenti
soffocati, la tesa ti ringhiotte
dell'onda antica che ti volge; e ancora
tutto che ti riprende, strada portico
mura specchi ti figge in una sola
ghiacciata moltitudine di morti,
e se un gesto ti sfiora, una parola
ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
nell'ora che si scioglie, il cenno d'una
vita strozzata per te sorta, e il vento
la porta con la cenere degli astri”.
E. Montale, da Arsenio, Ossi di seppia.

Ultimo romanzo di Elsa Morante, Aracoeli, pubblicato da Einaudi nel 1982, è la narrazione di Manuele, uomo quarantenne, bambino e vecchio, misantropo e omosessuale, che ricorda la sua infanzia ed il suo attaccamento morboso per la figura materna. Amore che lo renderà un escluso, un fallito: suo unico desiderio sarà sempre di essere amato, e l’esclusività dell’amore materno, dapprima elargito e profuso, poi negato, gli sarà d’ impedimento nella sua vita nel rapporto con gli altri, dai quali rifugge commiserando la propria natura infelice.

“Come ogni altra favola antica, anche questa forse comunica qualcosa di vero. E in tal caso a me comunica che io, di certo, non sono un corpo miracoloso. Se avessi una sonda adatta, potrei ripescare in fondo al mio passato la data lontana di quella notte che fui visitato dal sarto immortale. Da allora fra le sorti indelebili della mia trama futura, ormai cucite dentro la mia carne, la prima diceva:

Mai più tu sarai
un oggetto d’amore
mai per nessuno mai
mai tu sarai un oggetto
d’amore.
Però questa mia sorte decretata io l’ho imparata assai più tardi”[1].
“Da quando ho perso il mio primo amore Aracoeli, mai più mi si è dato un bacio d’amore”[2].

Impiegato avventizio in una piccola impresa editoriale, decide di lasciare Milano, per mettersi sulle tracce della madre Aracoeli, morta da tempo, ritornando ai suoi luoghi natali in Andalusia.

“E adesso, qui nell’Andalusia, come a Milano e dovunque altrove, sarebbe tardivo e demenziale aspettarsi altro che indifferenza, per me, da parte dei vivi; né io voglio altro. Anzi, sono io stesso, fra loro, come un’ombra insensibile. Sulla corriera in partenza dal piccolo aeroporto per Almeria città, mi sono seduto, come già sull’aereo, solo in disparte verso il fondo. Non voglio più ascoltare baci schioccanti né dialoghi amorevoli; e ho riposto gli occhiali nella tasca della giacca, così che gli altri passeggeri della corriera mi si riducono a larve informi. Di là dal vetro rigato di pioggia mi si lasciano intravedere, a tratti, le braccia di un albero protese e sbattute dal vento, sui lati di una strada periferica, forse campestre, illuminata soltanto dai fari della corriera”[3].

La narrazione si sviluppa tra alti e bassi in un costante riflusso di memoria, che dal viaggio verso le terre ispaniche nel presente, ritorna agli anfratti desolati del passato. Manuele racconta dei suoi ricordi d’infanzia, ma le sue memorie sono ben lontane dall’ ariosità fantastica di Arturo, a cui la Morante ci aveva svezzato molto tempo addietro.
Si potrebbe forse dire “c’era una volta” una Morante che sapeva “con bellissime fiabe consolare la notte”, quando lei stessa scriveva “Non è mio pregio, ma del cielo / che mi fece fantastica / se degna io sono della grazia”[4].
La stesura di Aracoeli ebbe inizio nel 1976 e fu portata avanti per cinque anni, e come ricorda Garboli[5], non si trattava più della Morante giocosa, selvaggia, entusiasta e capricciosa, ma lei stessa si sentiva ormai privata del dono della grazia e si accusava “di un difetto odioso, nel quale, come in una radice, si riassumevano tutti gli altri che sentiva, o sapeva, che le erano rimproverati – la pedanteria, il dispotismo, l’incapacità di dimenticare e dimenticarsi, il bisogno di dar sempre lezione, la mania di mettere i puntini sugli i e di far da gendarme delle idee proprie e di quelle altrui”[6]. Senza voler ridurre l’opera morantiana a mero psicologismo autoriale, possiamo però collocare Aracoeli in questo grembo ormai stanco, come una gestazione sofferta.
Sembra che tra le pagine l’antica levità sia ormai impossibile, e forse si potrebbe parlare di Aracoeli come del romanzo della grazia perduta. Manca del tutto la meridionalità della scrittura di Elsa, l’energia dell’amato sud, la solarità e lo straripare delle parole. Rosa commenta a proposito della lingua: “La tensione trasfigurante che sin dall’esordio connota la scrittura morantiana assume in Aracoeli, per la prima volta, le forme e i moduli della deformazione espressionistica: venuta meno la “simpatia con la realtà”, fonte di realismo autentico (Sul romanzo), i singoli elementi della scena vengono alterati e la parola romanzesca si incarica di descriverne gli aspetti angosciosi”[7]. Si tratta di una Morante appesantita e la stessa lettura a volte diventa faticosa. Il linguaggio polifonico e nevrotico sembra in preda alle oscillazioni dell’io narrante, tra picchi lirici e cadute soggette al termine becero e volgare. La vista colpita da miopia deforma la percezione di Manuele, restituendone immagini stravolte:

“Per uno dei suoi soliti effetti bizzarri, la mia vista malata, mentre mi stinge e impoverisce il mondo aperto, è capace di suscitarmi, a occhi chiusi, luci e spettacoli straordinari”[8].

Alla vivace coralità dei suoni e colori dell’Isola, che quasi fa vibrare la pagina dei suoi splendori, si oppone il senso di silenzio oppressivo e l’eco di voci funebri che fanno da sfondo alla narrazione di Manuele. E’ una scrittura disillusa, privata della morantiana teatralità che caratterizza gli altri romanzi: non è più il tempo della tragedia, ora la parola si fa commiato, lamento. Raro o nullo è il gioco della fantasticheria, non vi è mai frivolezza, la risatina stupida di Useppe è cancellata, e la Morante rimane spogliata della “fatua veste della Finzione”[9]. Il felice autoinganno dei personaggi morantiani (Elisa, Arturo, Useppe) che, attraverso la scrittura o l’incantamento con il mondo, erano protetti e portati in salvo dal Brutto[10], ancorati per sempre alla chimera delle loro visioni, (dove “l’insegna paurosa non varcherà mai la soglia di quell’ isoletta celeste” e “non sarà mai rubato quest’ unico tesoro”)[11], qui sembra arrendersi. Tutto è già svelato, già detto, resta il sentimento di pietà della scrittrice. La salvezza non è più possibile. Per la Morante, come per Manuele, al fondamento dell’esistenza vive un principio straziante: “vivere significa l’esperienza della separazione”, lo scacco rovinoso è stato giocato. La favola era caduta. “L’isola non si vedeva più”.
Non solo la lingua, ma anche la struttura del romanzo risulta grave, insistita: la narrazione procede infatti senza seguire un percorso cronologico, e trova soluzione in un amalgama confuso di aneddoti che giungono alla mente del narratore, come se questo fosse colto in preda al delirio di sonni turbatori.
Il narratore racconta in medias res la cronaca di viaggio, diversamente dalle scritture di Elisa intessute e dorate dal tempo, o dalla memorie di Arturo, e ancora più lontano dalla voce corale de La Storia.
Anche lo spazio è cambiato, e dalle terre del sud Italia, siamo saliti al Nord: il protagonista abita in sudice camere di albergo in una Milano grigia e soffocante, che contribuisce al senso di malattia, e la stessa Roma dell’infanzia sembra aver perso la sua adesione con la realtà: diventa infatti luogo della mente e della visione deformata del bambino Manuele. Si tratta di una deformazione ben diversa da quella prodotta da Useppe o Arturo: come già detto, non c’è spazio per la frivolezza fanciullesca, e il gioco di dare nomi fantastici alle cose non regge più. Manuele ritaglia come unico spazio felice le mura domestiche di “Totetaco”, il suo domicilio clandestino a Monte Sacro dove vive i primi anni nel mistero amoroso della madre Aracoeli. Solo lì la simpatia con l’universo è intatta. Ricorda Manuele:

“Nella casa clandestina del Totetaco non ci siamo che noi due soli: Aracoeli e io. Congiunzione inseparabile per natura e di cui pareva a me naturale anche l’eternità (...) Le nostre 1400 giornate a Totetaco sono tutta una balera fantastica, dove il giorno e la notte ripetono i loro giri allacciandosi e rincorrendosi in una coppia ballerina”[12].

“Da un pezzo ormai so che nel quartiere di Monte Sacro a Roma sarebbe inutile cercarlo. I nostri felici 1400 giorni sono stati cacciati via di là. Il nostro Totetaco – mio e di Aracoeli – è emigrato nel piccolo paese della Sierra da dove lei, nelle mie ultime notti milanesi, già mi chiamava – e adesso mi richiama – e dove mi aspetta oggi per l’appuntamento promesso”[13].

“Il corpo di cui mi vergogno mi cascherà di dosso come un travestimento da commedia, e in me, ridendo, lei riconosce l’infante di Totetaco. Uguali lei e io, tornati coetanei. Bambino? bambina? Certi dati, là, non hanno corso. Maschio o femmina non significa niente. Là, non si cresce”[14].

Totetaco è l’isola di Manuele, ma a differenza di Arturo, lui ben presto apprende la legge sconosciuta al fanciullo procidano e che a Elsa “ha spezzato il cuore: / fuori del limbo non v’è eliso”[15]. Già nella nuova dimora dei Quartieri Alti, Manuele bambino si discosta completamente da Arturo e da Useppe: l’atteggiamento riflessivo, la mancata vivacità giocosa tipica dell’infanzia, e la lucidità della sua percezione lo caratterizzano come un precoce disilluso dalla realtà. Ricorrendo alla triade dei personaggi tipici teorizzata dalla Morante, si potrebbe forse dire che quanto Arturo e Useppe siano rispettivamente l’Achille e il Don Quichotte, Manuele corrisponde ad Amleto, il più moderno, dopo il tempo della tragedia classica e dell’eroe romantico, anche se a ben vedere tutti e tre gli eroi sono, secondo momenti e pesi diversi, propri dei nostri personaggi. Se Arturo si poneva come l’Eroe, antico condottiero e padrone incontrastato della sua isola incantata, Manuele è il prototipo dell’Antieroe: non è mai in preda agli affanni furiosi, ai repentini capricci, e, narratore adulto, si abbandona alla nenia, in attesa dell’annullamento, in un sonno narcotico alterno alla veglia sofferta e nauseata dalla realtà.

“Non mi resta, allora, che rifugiarmi, in fretta dentro il letto. E qua, ritirato il ponte levatoio fra me stesso e la mia presenza, adesso mi sento quasi in salvo, scomparso fino a domani. Rannicchiati nel buio sotto le lenzuola, infine si è latitanti, in un’anarchia senza forme, né anamnesi, né identità. E ci si può fingere altri, come si vuole: belli, freschi, fanciulli”[16].

Escluso dagli altri, a differenza degli altri personaggi morantiani, Manuele è un escluso anche da se stesso: si disprezza per primo, prova ribrezzo per il suo corpo, è un ex-Narciso; non è un personaggio simpatico, la sua apologia risulta affettata, laida, inferma; è un paria, uno sbagliato, rifiutato dalla società, e cade in un vittimismo concentrico, mendicante d’amore.
Lontano anche dalla Storia, dal corso degli eventi, Manuele, miope, oppone fin dall’infanzia all’esterno-estraneo il gesto di togliersi gli occhiali, e si ripiega su di sé. Come l’Edipo cieco della Serata a Colono[17], è visionario, pazzo, schizofrenico.
A questo isolamento contribuisce inoltre lo sfondo socio-culturale e politico del tempo: da parte di padre Manuele proviene dalla società bene torinese, (perfettamente ritratta verso il termine della narrazione nella “Doppia Statua Parlante” dei nonni paterni), una borghesia affetta da perbenismo ipocrita e classista, monolitica nelle sue posizioni fossilizzate e cieca di fronte al drammatico precipitarsi dei Grandi Eventi sul panorama europeo[18]: la politica entra nei salotti, abbigliata da “Gran Discorso”, ma rivela nelle chiacchiere di zia Monda, tutta la superficialità e mancanza di analisi, stereotipo convenzionale che la riduce a mondanità di cui “si sa, si deve parlare”. La vergogna di appartenere a questo tipo di borghesia alimenta in Manuele il senso di colpa. Sull’altro orizzonte materno, soggetto alle trame incantate del mito, si staglia la figura dello zio Manuel, combattente nella guerra civile spagnola contro il “Nemico Franco”. Manuele in cuor suo mai confiderà a nessuno, neppure ad Aracoeli, la propria predilezione per lo zio mai conosciuto.
La chiusura dello spazio domestico influisce sul carattere già introverso di Manuele, che adulto, alla vitalità drammatica di Arturo, che ora si dispera e ora gioisce, sostituisce l’apatia sonnolenta sotto effetto di droghe.
Alla curiosità del mondo, all’apertura verso l’ignoto, Manuele è toccato dall’immobilità di spirito, per un processo inverso d’iniziazione. Se Aracoeli è l’unico romanzo di Elsa Morante dove il fantomatico Estero viene effettivamente raggiunto, ecco che questo si rivela essere un’arida, secca pietraia desolata: le terre d’Andalusia creano un paesaggio d’incubo, abbandonato, grigio, e disabitato.

“Adesso, mi si manifesta, al di sopra, un cielo basso, tutto coperto da una piatta nuvolaglia striata, che non sembra di natura acquea, rassomigliando, piuttosto, a una coltre di scorie bruciate, portate fin qua dal soffio africano”[19].

Se alla partenza Manuele si sente chiamato all’appuntamento con la sirena Aracoeli:

“E così, adesso (l’ora è circa le undici di mattina) mi sono messo sulla strada , in partenza da Milano per andare alla ricerca di mia madre Aracoeli nella doppia direzione del passato e dello spazio. (…) Fra le poche notizie che possedevo di lei, c’erano i suoi dati anagrafici principali: ossia, oltre al suo doppio cognome di ragazza, il suo luogo di nascita, che sapevo situato nel territorio di Almeria, e si chiamava El Almendral. (…) Invece, El Almendral io non lo trovai su nessuna carta. Ma intanto quel minimo punto periferico, ignorato dalla geografia, da ultimo era diventato l'unica stazione terrestre che indicasse una direzione al mio corpo disorientato. Il suo era un richiamo senza nessuna promessa, né speranza. Sapevo, al di là di ogni dubbio, che esso non mi proveniva dalla ragione, ma da una nostalgia dei sensi, tale che nemmeno la certezza della sua esistenza non mi era una condizione necessaria”[20].
E ancora:
“Per me che corro verso El Almendral i tempi si riducono a un unico punto sfavillante: uno specchio, dentro il quale precipitano tutti i soli e le lune. E là in quel punto sospesa, in volo ma pure immobile, mi precede la mia staffetta encantadora”[21].

Ecco che già nell’attesa nello scalo a Madrid si svela nella sua evidenza l’inutilità del viaggio, estrema beffa di Aracoeli[22]:

“Questo tale son io, dunque, sbarcato alla prima tappa del mio leggendario ESTERO materno: nient’altro che un turista spaesato fuori stagione”[23].
“E adesso dove mi porti? Forse, El Amendral non esiste. È uno dei raggiri che tu inventi per cacciarmi su piste false, dopo avermi già ingannato bambino”[24].

Il viaggio da Milano a Madrid, da Madrid a Almeria, la tappa in una fatiscente camera d’albergo, l’interminabile tragitto in corriera da Almeria a Gergal fino all’arrivo a El Almendral, sono scanditi dal confuso affollarsi dei ricordi d’infanzia nella mente del narratore, che ora li percorre con lucidità, ora vanno a fondersi con le sue visioni e invettive.
Le litanie e filastrocche iberiche che irrompono improvvise tra le memorie e accompagnano il viaggio sembrano essere più formule di maleficio pronunciate da morgane, e niente hanno a che vedere con la protettiva e materna Dedica che apre L’isola di Arturo.

“Anda niño anda
que Dios te lo manda”[25].

“Esto niño chiquito
no tiene madre.
Lo parió una gitana
Lo echó en la calle”[26].

“Duérmete niño mio
que viene EL COCO
y se lleva a los niños
que duermen poco”[27].

Manuele non è toccato da nessuna grazia angelica a differenza di Useppe, il quale, più creatura celeste che bambino, è legato a un mondo paradisiaco ed è predestinato ad abbandonare presto questo mondo a lui incomprensibile. Ai suoi “pecchè?” non c’è risposta che gli spieghi la Brutalità: questa non è fatta per lui e dove la incontra rifiuta di accettarla. Manuele vive fin dall’infanzia la mediocrità, se si fa eccezione per il periodo di Totetaco e altri sporadici momenti felici. L’eccezionalità non ricopre le sue imprese, e il Velo di Maya[28] cade e denuda il Sacro, lo sveste della sua “tenda istoriata”. L’aura che adorna l’infanzia va deteriorandosi, e gli stessi oggetti che nella Morante, per dirla con Garboli, “controllano destini, filano sorti, concentrano nel loro immobile esistere il mistero di cose che in apparenza si svolgono nel tempo”[29], qui in Aracoeli, traditori e traditi, feticci di derisione, vengono rinnegati; i “segni stellari” che accompagnano il viaggio verso la méta (la MÁS LUMINOSA, El tío somigliante a Balletto, la ripresa dei rapporti con la lingua spagnola, e ultimo e più significativo la riapparizione iconografica del talismano di Aracoeli) si beffano di Manuele e lo ammaliano promettendogli l’appuntamento estremo. Dello stesso talismano che nella fanciullezza, gli era stato dato in dono da Aracoeli dopo la profezia della zingara, Manuele se ne era liberato con l’offesa di gettarlo via nel carrettino delle immondezze, e ora ecco che questo veniva a richiamarlo come il suono di un flauto magico:

“Si potrebbe anche supporre che il potere di un oggetto magico intrida non soltanto l’oggetto tangibile, ma anche la sua ombra o la sua impronta”[30].
“Per me, la riapparizione materiale del talismano oggi, a Gergal (…) si spiega solo come un altro messaggio di Aracoeli. Forse il suo dono del talismano andava inteso fin da allora come un appuntamento: «Ti aspetto, nella tua vecchiaia, a El Almendral (…)»”[31].

Per Manuele non ci saranno mai Grandi Imprese da compiere, e patetica risulterà la “comica impresa partigiana”[32], quando ingannato da uno stupido scherzo di due omosessuali, l’illusione dell’eroismo cadrà in un ridicolo teatrino da strada.
Unicamente le origini natali di Aracoeli sembrano circondate ancora dal mistero del simulacro: elevata a regina dei feudi ispanici, la madre di Manuele gli vanta il suo antico lignaggio nei racconti del gatto Patufè, della capra Abuelita, e della vecchia di nome Tia Patrocinio, ma solo il fratello Manuel, detto anche Manolo o Manuelito, risplende e troneggia sulle sagome iberiche. Minore di età, nell’amore smisurato d’Aracoeli, questo giganteggia per valore e virtù di misura virile, tenuto in considerazione di “Gran Condottiero”, “fra i primi della Sierra e forse di tutta l’Andalusia”, e per riverbero, la folgorante figura dello zio rappresenterà sempre l’unico Eroe possibile agli occhi di Manuele.
Ma i racconti materni sono riposti e custoditi ermeticamente nella cornice domestica di Totetaco, dove si suggella l’amore madre-figlio, assoluto e unico. Qui è l’origine, centro gravitazionale dell’universo, dove è possibile un linguaggio preistorico, antico e primordiale: la “lingua nuziale” di Aracoeli[33]. È lo stesso idioma dei bambini e degli animali, codice saggio e idiota, che riguarda le zone dell’indicibile, scolpito nel geroglifico del mondo, che ricorda il linguaggio di Iduzza e Useppe, Bella e Useppe, o ancora le stesse poesie di Useppe “che parlano di Dio” ne La Storia, dove, come dice Rosa, “contro la comunicazione «irreale» che si svolge nel luogo-tempo della storia, fondata sui codici opachi della referenzialità «unidimensionale», la narrazione celebra una confidenza più vera, l’unica che consente all’io di entrare in comunione autentica con l’altro. (…) Per tutto il romanzo, i dialoghi autentici non si affidano mai alle parole ma prediligono l’intensità di uno sguardo. (…) Ma, al di là delle occhiate parlanti, dei muti dialoghi rivelatori, dei trilli canori che cantano lo «scherzo» della vita, ciò che va sottolineato, è il privilegio sempre accordato dalla voce narrante alla comunicazione prelogica, all’intuizione nascosta di verità dolorose, ai numerosi cortocircuiti espressivi che oltrepassano la soglia della parola referenziale”[34].
L’amore di Aracoeli per il figlioletto straripa nei primi anni di Totetaco e restituisce alla balorda memoria di Manuele immagini di giubilo e festa amorosa:

“E mi è bastato chiudere gli occhi perché la giostra si mettesse a girare, in una estate pomeridiana dove le ombre dei fogliami e le luci aeree si rincorrono sbattendo come ali screziate. Ho forse quattro anni o cinque, e viaggio sulla giostra di Villa Borghese, a Roma. Secondo il mio solito, a preferenza dei veicoli a motore o a ruote, avrò scelto quando un cavallo e quando un cigno, animali fraterni, e inclini a itinerari di follia. La giostra corre suonando una canzonetta, a un ritmo veloce almeno quanto la rotazione della terra: cavalcata radiosa, delizia e paura, sotto la segreta minaccia di non fermarsi più. A ogni girata si rifà il giro del mondo, ripassando in una volata tutti i punti dell’equatore. E in un punto c’è sempre una che aspetta me, proprio me e nessun altro far tutti i viaggianti. Aracoeli! già a distanza lei mi riconosce, con sua grande sorpresa; e mi festeggia, nella sua balzante gonnella fiorata sventolando la sua manina: «Adiós! Addio! Addio!» Fiero della mia impresa mondiale, io, per quanto impegnato nel tenermi in groppa, la saluto con un sorriso tripudiante. Al mio risponde il tripudio uguale del suo riso. E le nostre due risa insieme balzano da una corda all’altra, vibrando in invisibili casse di risonanza lungo una fuga infinita: finchè hanno toccato questa mia stazione serale di Almeria”[35].

Di questo “falso eccessivo amore”, al quale come un vizio incurabile lo rese assuefatto, adesso Manuele rimprovera la madre, e accusandola della propria omosessualità, avendolo allontanato per gelosia dalle ragazze “fresche e belle”, inveisce contro di lei:

“A quest’ora (quarant’anni fa) già da un paio d’ore tu dormivi col tuo niño, come ogni sera, contenta, dopi i bacetti della buonanotte. Ma che ne hai fatto di quel niño, Aracoeli? Consegnandolo alla tua buonanotte, tu lo custodivi, stupidella, per le notti del COCO.
E diamoci qua stasera, la malanotte. Malanotte a te Aracoeli, che hai ricevuto il seme di me come una grazia, e l’hai covato nel tuo calduccio ventre come un tesoro, e poi ti sei sgravata , di me con gioia per consegnarmi, nudo ai tuoi sicari. (…) Tu non sapevi niente di niente; ma io sapevo, invece, che questo mio corpo di strazio, tu volesti dartelo in regalo, a te stessa, come un giocattolo. In realtà, piccola pezzente, tu avevi voglia di una bambola. Una muñeca! (…) Ma un balocco, dopo averci giocato a sazietà, un bel giorno si lascia da canto, ridotto a oggetto di scarto”[36].

L’amore per la Morante e per i suoi personaggi (si pensi ai personaggi di Menzogna e Sortilegio) è un amore tirannico, maligno e perverso. Eccede la sua forma sana, distrugge, azzera. Sgorlon osserva che “in questa scrittrice chi ama lo fa in modi così insaziabili che sembra voglia risucchiare, come un vampiro, ogni grammo di capacità amorosa nella persona amata, fino a fare di lui un guscio svuotato di ogni sostanza”[37]. La venerazione per Aracoeli ancora una volta si allontana dalla parallela adorazione di Arturo per la figura materna mai conosciuta: questa, come una vestale, protegge il suo ragazzo, di là dal cielo, e somiglia più ad una simbologia sacra, un alfabeto, una religione panteista a cui l’intera natura dell’isola partecipa e ne rifulge. Ai riflessi iridescenti che nell’isola sembrano esplodere della Bellezza, ancora una volta Manuele risponde con la consapevolezza della propria bruttezza. Per la Morante la bruttezza è il segno della condanna del destino. Qui il culto della bellezza non è più ammesso neppure nell’infanzia. La “favola mammarola” dei tempi di Totetaco è stantia. Solo quello spazio era abitato dalla bellezza che uno beveva dall’altra:

“C’era una volta uno specchio dove io, mirandomi, potevo innamorarmi di me stesso: erano i tuoi occhi, Aracoeli, che m’incoronavano re di bellezza nelle loro piccole pozze incantate. E questo fu il miraggio che tu mi fabbricasti all’origine, proiettandolo su tutti i miei Sahara futuri, di là dai tuoi orrori e dalla tua morte. (…) Mentre io sopravvivo, canuto Narciso che non crepa, sviato dalle tue morgane”[38].

“A tutte le ore,capitava sempre qualche bellezza di passaggio, da mirar. Ma le bellezze più belle, chi le teneva? Io! Dal naso agli orecchi al culillo alle dita dei piedi, non c’era luogo del mio corpo che lei non giudicasse perfetto. E tanto le piacevo, che a volte fra i suoi baci schioccanti mi dava dei morsetti innocui, dicendo che mi mangiava, e decantando i miei vari sapori. Le guance: manzane. Le cosce: pane fresco. I capelli: grappoletti de uvas. A guardare i miei occhi, poi, s’insuperbiva, come a un segnale gaudioso del suo grande sposalizio esotico:
los ojos azules
la cara morena.
Io non dubitavo d’essere bello”[39].

Alla fine di quest’epoca Manuele mette una data: è quando per la prima volta è costretto ad indossare gli occhiali che lui comincia a piacerle di meno, cogliendo nella protesta della madre, di fronte all’impostura delle lenti, che guastano il faccino del suo bambino, una ferocia fuori dalla sua volontà che tradisce la sorpresa e la delusione, e per la prima volta lei lo vede brutto. Al gesto repentino di togliersi gli occhiali il rimedio non è più possibile: Aracoeli risponde con un “sorrisetto che ne sa di forzatura”. L’incendio bianco che sorprende Manuele, nel vorticoso capogiro e spettacolo d’orrore causato dalla novità delle lenti, delinea la distanza inevitabile che si viene a interporre tra l’io e il mondo, dalla sua decifrazione naturale e felice, ovvero dal creduto inscindibile connubio con Aracoeli. Ora Manuele adulto, spogliatosi di fronte allo specchio, vede la sua nudità come una “formazione aberrante, concresciuta per maleficio”, e alle domande “mi riconosci, Aracoeli? Ancora ti piaccio? Mi vedi bello?”, si risponde da sé:

“Ora ti sei dileguata come una ladra; mentre io mi ritrovo qua, solo e nudo, davanti a questo ropero de luz – espejo de cuerpo entero, il quale mi butta in faccia, senza cerimonie, la mia forma reale. E chi non si schiferebbe di questa scimmia, quando me ne schifo io medesimo?
Ogni creatura, sulla terra, si offre. Patetica, ingenua, si offre: «sono nato! Eccomi qua, con questa faccia, questo corpo e questo odore. Vi piaccio? mi volete?» (…) Questa è in realtà l’unica perpetua domanda di ogni vivente agli altri viventi: «vi paio bello? Io che a lei parevo il più bello?» (…) Avvezzo a una fusione incantevole, creduta eterna, e certo di un ringraziamento gaudioso per la propria ingenua offerta, il principiante impallidirà stupefatto all’incontro con l’estraneità e l’indifferenza terrestre”[40].

L’Aracoeli di Totetaco, la madre davanti a cui non servono addobbi per piacerle, è una bambina-donna, ricordata da Manuele sotto tratti ferini e selvatici, propri dell’animaletto che tutto ignora ed è costretto alla cattività. Il suo aspetto fisico ancora acerbo non sembra essere adatto alla maternità, e questa è nella pubertà più un gioco agognato per le sue “canciones de cuna”, privo di qualsiasi tentazione erotica, senza languore o civetteria: i segni della goffaggine infantile non escludono la sua naturale esigenza di un “vero puttino vivo”, istinto e preghiera corale, scolpita nella legge necessaria di tutte le madri. Aracoeli, a differenza delle sue coetanee, non fantastica mai sull’idea di un possibile sposo, avendo timore degli uomini cresciuti, e anzi è affascinata dal capriccio di farsi suora, promessa di “cori, visioni, candeline accese, panetti dolci e festoni di fiori colorati”. Pensando forse ad una “fecondazione «senza peccato» come quella della Virgean”, la gravidanza è vissuta come una macchina ignara dei suoi meccanismi, con il solo stupore davanti al miracolo. L’infanzia e l’adolecenza di Aracoeli sono costellate da una trama fitta di credi popolari e superstizioni, che al mistero della Vergine e della Trinità riconducono ogni causa. Questa inscindibile fusione tra vita terrena e mistero celeste, legata alla radicata tradizione cattolica iberica, entra a far parte della quotidianità di Manuele, contribuendo all’ irraggiamento sacrale che, al suo sguardo, avvolge la figura materna:

“L’obbligo misterioso, che a casa nostra imponeva il riserbo sulle mie ascendenze materne, si offriva a me bambino come una base di possibili voli verso nidi leggendari. (…) in quei pianeti inesplorati della mia ignoranza, mia madre poteva discendere da una stirpe di gitani o di mendicanti o di toreri o di banditi o di Grandi Idalghi (forse, avrà avuto dimora in un Castello inaccessibile? Forse in qualche alhambra o alcázar?) E tutte queste possibili sorti – anche se balenanti di sfuggita sotto ai miei pensieri – erano una raggiera variante e innumerevole che si dipartiva da lei come da un corpo luminoso”[41].
“Per piacermi, si traveste con tutti i costumi convenzionali che sempre, di ritorno, fanno sognare gli imberbi (così come i pupi conformi dei teatrini ambulanti fanno applaudire i bambini). Pastora. Idalga. Santa. Meretrice. Morta. Immortale. Vittima. Tiranna. Bambola. Dea. Schiava. Madre. Figlia. Ballerina”[42].

Eppure l’alone misterioso che circonda le origini di Aracoeli, rappresenta in casa di Manuele uno “scheletro nell’armadio”, che sottintende una disparità di classe d’ appartenenza tra i due coniugi. Così avviene che la zia Monda s’incarica dell’arduo compito del tirocinio della nuora per apprenderla alle buone maniere da signora, e d’altraparte Aracoeli per prima è desiderosa e impaziente d’adeguarsi e nobilitarsi alla stirpe dell’amato. zia Monda, emblema della compostezza signorile, conduce difatti una vita seria e sobria, secondo le tradizioni familiari, e porta il suo virgineo celibato fuori scadenza con onore, concedendosi il solo lusso e vanto del proprio abbigliamento, anch’esso sobrio e privo di ogni vistosità eccentrica. Nel vagheggiamento del “Principe Azzurro”, si consacra all’amore per Mussolini e per il Generalissimo Franco.
L’arrivo ai Quartieri Alti significa per Aracoeli e per Manuele l’ingresso in società, consacrato dalla legittimità del matrimonio, dopo i felici tempi clandestini di Totetaco. Le novità che la nuova residenza comporta, dalla conoscenza del vicinato e delle regole gerarchiche della palazzina, alla dimestichezza tutta da conquistare con lo spazio urbano, Manuele e Aracoeli, come una coppia impaurita scantonano tra vie traverse o si arrestano improvvisi col batticuore tra la folla cittadina.
I pregiudizi di quel piccolo mondo ben si identificano nella domanda di zia Monda che, ad ogni nuova conoscenza, si domanda “Come nasce?”. Secondo questo codice, ancora più rispettato per il valore che questo acquista all’interno della casta militare marittima a cui appartiene il marito, Aracoeli “non nasce”, ovvero non è di un sangue di cui ci si possa vantare nei circoli ufficiali. Eppure il silenzio che aleggia nella società romana, non impedisce che Aracoeli sia trattata da tutti con benevolenza e indulgenza, secondo i dettami della signorilità di classe, forse più dovuta al rispetto portato alla posizione di riguardo impersonata dal padre di Manuele.
Eugenio Ottone Amedeo, ufficiale della Regia Marina e tenente di vascello, dall’aspetto che “faceva luce” e di modi “degni di un Principe”, dedica la sua esistenza al culto del re d’Italia, Vittorio Emanuele Terzo, culto che puo trovare spiegazione anche dalle origini torinesi, fortemente radicate nella ferma devozione all’effige di casa Savoia.
La figura di Eugenio ricorda la mitizzazione che Arturo fa del padre Wilhelm: ugualmente lontano, l’aura sacrale di Eugenio però è confermata dall’unanime rispetto e devozione di tutti. Alla meschina figura di Wilhelm, Eugenio oppone una reale nobiltà di spirito, degna di un dio. Nella sua somiglianza somatica con la sorella, in lui quei tratti fuori posto si accordano, donandogli un effetto di prestanza virile e una sorta di freschezza adolescenziale[43]. I caratteri che nella sorella risultavano goffi e scialbi, l’altezza considerevole o il colore chiaro dei capelli e degli occhi, in lui risaltano di uno sfavillio solare e sano. La rigidezza dei gesti sta a intendere la risolutezza caratteriale e l’elegante e composta disciplina. L’adorazione religiosa di Raimonda per il fratello, di fronte al quale senza invidia e con completa umiltà, prova vergogna di esserne la copia mal riuscita, ricorda il rampollo di casa Cerentano in Menzogna e Sortilegio, che godeva della stessa venerazione da parte della madre e della sorella.
Proprio la statuaria e irraggiungibile ufficialità del padre, non permette a Eugenio di accostarsi alla semplicità calorosa del ruolo paterno, che si alimenta della quotidianità e della confidenza. Manuele non lo chiama “papà”, come del resto quasi tutti lo chiamano “Il Comandante”. Ancora una volta nella Morante la figura del padre è distante, e questa lontananza costituisce un inevitabile disequilibrio nel delicato formarsi del bambino Manuele. Alla mancanza del modello virile, Manuele supplisce ritagliando uno spazio tutto femminile e materno, dove la mascolinità non ha accesso e sembra inarrivabile, con inevitabili conseguenze sulla sua crescita sessuale.
I tempi di Totetaco sono scanditi tra i giochi e le scorribande casalinghe di madre e figlio, e le attese di Aracoeli, nelle baluginanti, improvvise e brevi visite di Eugenio.
L’amore dei genitori, quasi adolescenziale e immaturo nella sua irruente dolcezza, esclude Manuele dal triangolo familiare, anzi sembra proprio che l’unità di questo sia solo possibile per legami binari, che ora legano Aracoeli a Eugenio, ora Manuele a lei:

“Allora, per quanto ne sapevo, io non avevo nessun padre. Né concepivo, del resto, che i padri sulla terra fossero necessari e inevitabili. È assai verisimile che, nelle sue licenze, mio padre – in incognito – salisse a Totetaco (…) E tuttavia delle sue visite la mia memoria non serba nessuna traccia. (…) Le prime immagini reali di mio padre (…) mi si presentano nella casa dei Quartieri Alti”[44].

“Subito in una rincorsa dietro mia madre, anch’io mi appressavo a lui, curioso e perplesso, ma con estremi riguardi. In realtà, nell’imminenza del nostro primo incontro, Aracoeli mi aveva magnificato la sua persona con tali voci, che io restavo lì piantato a contemplarlo, come fosse un’altra Macarena. Teofania nuova e ignota – ma certo benigna – discesa – o salita – qui, per una grande spinta dell’aria. (…) Nessuna minaccia per me, da lui. Troppo diverse erano le nostre due misure, per adattarsi a un confronto, o, tanto meno, a una competizione. Anzi, il suo corpo mitico, che a lui prestava Aracoeli, estendeva fino a me la sua dignità grandiosa.
Verso di me, fino da principio, i suoi modi accusavano, insieme a una sua buffa imperizia nel mestiere di padre, anche una descrizione esitante e confusa, quasi temesse di impormi la sua potestà, sotto qualsiasi aspetto. (…) Fra me e lui, corse subito – in luogo dell’affetto carnale – una silenziosa concordanza: forse anche in virtù della nostra comune passione per Aracoeli. È certo che il nostro amore grande, esclusivo per la stessa donna era fra noi due motivo di riconoscenza, piuttosto che di contesa. (…) Anzi, il piacere di vedermi esistere veniva a lui specialmente dalla mia somiglianza con Aracoeli”[45].

“Col passaggio dell’infanzia, sempre più lo sposo d’Aracoeli, invece d’incarnare, per me, la specie paterna, mi rappresentava un culto. Fino dalla ma nascita, per me paternità significava assenza; (…) Al mio culto (quasi astratto) lo consacrava la fede adorante di Aracoeli; e da me in lui si onorava lo sposo di Aracoeli, non certo il padre della mia carne”[46].

La chiave di volta nei delicati equilibri amorosi che legano i personaggi arriva con l’attesa della secondogenita Encarnación, detta Carina. La casa dei Quartieri Alti si addobba a “Corte Reale in attesa dell’Infanta”, ma la sua morte precoce, poco tempo dopo la nascita, comporta una spaccatura insanabile nella vita dell’intera famiglia, e in particolare diviene punto di fuga verso cui precipita la salute psico-fisica di Aracoeli, attimo funesto percepito e intuito da Manuele:

“E in quel punto il tempo si è fermato, rendendomi a un senso indicibile, unico e totale, al quale oggi potrei dare un nome: ETERNITÀ. (È strano come l’ETERNITÀ si lasci captare piuttosto in un segmento effimero che in una continuità estesa. Ma il corpo non sostiene la prova, e torna al disordine)”[47].

Da questo momento in poi il rapporto madre-figlio incomincia a deteriorarsi fino alla totale incuranza e indifferenza che Aracoeli dimostrerà a Manuele, che diventa, al pari di un soprammobile, oggetto di poca importanza, più d’impiccio che altro. La spaccatura avviene il giorno in cui Manuele, già piuttosto grandicello, di fronte alla nudità di Aracoeli, sempre tenuta nascosta, si attacca come un poppante al seno della madre, forse per nostalgia dei giorni di Totetaco, quando ancora non era vittima delle disattenzioni materne. In quel gesto, istintivo e non meditato, Manuele giura il suo amore alla madre, e tenta puerilmente di consolarla dalla disperazione, quasi a volerle dire “sono qua io, Manuelino! Dormi dormi: se Carina non c’è, qua c’è Manuelino!”. Alla cacciata brusca e furiosa da parte di Aracoeli, ecco instillarsi in Manuele il germoglio del rancore, dove all’amore estremo si mescola in modo inscindibile una reticenza silente che intesse di veleno la loro unione. Ai timidi tentativi di riavvicinamento di Aracoeli, Manuele risponde con una serietà umbratile che disarma la flebile volontà materna.
Inizia in questo periodo la metamorfosi di Aracoeli: un male occulto insidiato nel suo profondo la logora e deturpa, dando origine in lei a comportamenti sempre più stravaganti, in cui lo sdoppiamento delle due Aracoeli, quella di un tempo e quella di adesso, è ravvisabile: alla domestica e genuina vitalità di Nunziatina, matrigna di Arturo, che altrettanto vive dei miti popolari e nell’intelletto rassomiglia a un animaletto, e che con totale fiducia ripone nelle credenze religiose e superstiziose i grandi misteri, a cui per certi aspetti assomiglia la prima Aracoeli, fa da controaltare adesso la malata forasticità ferina di quell’altra, preda di uno strazio bestiale. I primi segni di questo mutamento Manuele li nota nell’aspetto fisico di Aracoeli: se un tempo agli sguardi degli uomini per la strada si scherniva e fuggiva terrorizzata, con la timidezza spigolosa e ignorante di ogni sensualità erotica tipica delle figure femminili morantiane, quest’altra Aracoeli, quasi obbedisse a un “comando struggente e dispotico” da lei ignorato, scopre la tentazione del richiamo sessuale, attraverso l’ostentazione del suo corpo che ora si offre al passante; un nuovo languore la pervade e dona alle sue forme una morbida dolcezza che prelude ad una precoce avvizzimento malato e laido:

“Al suo passo ondulante, le curve del suo corpo si proponevano, ingenue e sfrontate, tutte vogliose di sciogliersi in un’ultima ubbidienza interdetta. E le voci di lode alla sua bellezza, le occhiate parlanti, parevano toccare fisicamente la sua epidermide, come lingue o dita, o mordere la sua pelle fino agli strati più profondi, facendola trasalire. Di quando in quando, prendevamo posto in un Caffè, dove lei (per una pulsione senza ritegni, pari a un’innocenza) si lasciava in pose che una volta le avrebbero fatto vergogna. Si tendeva sul busto, sporgendo il suo piccolo seno che, in quell’atto, sembrava inturgidirsi. Accavallava le gambe con un’incuranza volgare, così che la gonna le risaliva fino sulla coscia. E se da un tavolo vicino un uomo prendeva a fissarla – fosse pure brutto, meschino, vecchio – essa ne risentiva un’emozione ansiosa, udibile e visibile nei suoi respiri. Fra la palpebra socchiusa, e il bianco dell’occhio, le passava un tremolio di languore, come un liquido svaporante in fumi violacei”[48].

“La voce di mia madre era mutata. Il suo noto sapore a me familiare da sempre (intriso di miele e saliva) le si fondeva adesso, dalla gola, in un impasto più denso, vischioso e quasi sporco[49]”.

Sola, striscia tra le mura domestiche dilaniata dal desiderio sessuale, ed anche nei confronti del marito, Aracoeli manifesta la stessa bramosia impellente, scoprendo per la prima volta la carnalità del rapporto d’amore, che trova sfogo nel “ballo angelico”, ritmo e melodia incisi su un pentagramma interdetto a Manuele:

“Il corpo di lui, stavolta, più che da riparo, le serviva da strumento (l’unico suo legittimo), per soddisfare finalmente la sua arsione inappagata. Come se la casa fosse deserta, e il quartiere in polvere, fino dalla soglia lei gli si incollava al corpo, toccandolo smaniosamente con le dita e con la lingua, e mordendogli i labbri e l’orecchio, e aprendogli la giacca per cercarlo con le mani sotto la camicia: «Bello bello hermoso querido» si dava a ripetergli”[50].

Ai momenti di tregua che ancora ricordano la prima Aracoeli, si sostituiscono sempre più spesso questi fuochi improvvisi, che sulla via dell’adulterio, la condurranno alla ridda finale dell’ultima estate, in cui come visioni si affollano le immagini dell’Uomo-gatto, del Console della Milizia, dell’ascensore ammattito, della Donna-cammello, e gli scenari della Chiesa e della Quinta. Sempre più scostante nei confronti del figlio, Aracoeli sembra obbedire ad una legge sua misteriosa, che la chiama come il mare è chiamato dalla luna dando origine alle maree, variazioni modulari e arbitrarie che deformano il litorale secondo una regola celeste.
La stessa scrittura morantiana segue gli spasimi della deformazione, raggiungendo un lirismo espressionistico che ben si coglie nell’ episodio dell’Uomo-gatto:

“E tutto il suo corpo, dorato dal sole, è ricoperto di una pelosità calda e luminosa, dello stesso colore biondo-rosso dei suoi capelli corti e vivi: tale che immediatamente, al vederlo, lo si apparenta con la razza con la razza dei gatti rossi. I suoi occhi ramati non guardano Aracoeli; ma lui sembra, al pari di lei, vederla con altro mezzo che quello degli occhi: forse attraverso la pelle, o attraverso i capelli, che gli si muovono al passo come vibrisse. Si tuffa, e riemerge più luminoso, poiché sui suoi peli rossi l’acqua ha posato tante perline trasparenti. Il suo corpo gioca a pochi metri dalla riva, sparendo sott’acqua e ricomparendo, coi suoi moti lunghi e sinuosi da gatto. (…) vedo lo spazio marino spalancarsi in una dismisura vorace, confusa e rutilante. Tutta la luce dell’universo, dalle miniere d’oro alle galassie, si riversa liquefatta in questa piena mostruosa. Vi si aggrovigliano stelle filanti, vermi fosforescenti e serpi d fuoco; e vi galleggiano occhi di annegati, putrescente iridate e squame, fra squadre di pesci cannibali fini come aghi” [51].

Manuele davanti al mare prova timore e la visione marina, che acquista caratteri fantastici, (dovuta peraltro al suo difetto di miopia), trema degli stessi riflessi procidani, memore forse dei tuffi di Wilhelm e Arturo, ma, persa la solarità fresca e gioconda, ne resta la luce avida del meriggio, accentuata dalla carica espressionistica e aberrante della forza maniaca e tormentosa a cui sono assoggettati attori e spettatori.
Una dopo l’altra seguono le vicende adultere di Aracoeli-ninfomane che a qualsiasi apparizione maschile ora risponde con un gemito bestiale, ed il suo fisico subisce un abbrutimento accelerato che sempre più la consuma, fino a consegnarla nelle mani della Donna-cammello nei domini della Quinta.
Nell’incubo straziante in cui Manuele è costretto a vivere, si apre per lui uno spiraglio di allegrezza bambina, forse l’ultimo, possibile con l’ingresso in casa dell’attendente Daniele, parentesi di una breve stagione, in cui è ravvisabile la limpidezza ariosa dell’Isola di Arturo. Felice parto della scrittura morantiana, Daniele allieva la cupezza torbida con cui la malattia di Aracoeli infetta ogni cosa. Secondo Rosa “nel delineare il ritratto di Daniele, la voce narrante abbandona i toni dell’acredine adulta per riattingere le cadenze trasfiguranti della favola lontana: l’adesione piena all’ottica infantile proietta sul giovane marinaio l’alone mitico che si addice a un prode guerriero, appartenente alla «nobile stirpe dei Danieli o Danielidi», senza tuttavia cancellarne la gioiosità «pazzariella» da popolano analfabeta. In un’opera che, come sempre, privilegia in narrato rispetto al dialogato, le conversazioni fra i due ragazzi hanno una leggerezza tersa, una felicità timbrica, cui fa da controcanto la frequenza martellante dei paragoni tratti dai campi semantici della quotidianità bambina”[52]:

“L’attendente Daniele era un marinaretto di prima leva, il quale, alla faccia, dimostrava meno della sua età (venti anni). Aveva la pelle liscia, ancora fresca d’infanzia, di un colore bruno mescolato appena di rosa. Gli occhi grandi, di un turchino violaceo che sembrava un poco bagnato di latte, guardavano tutti quanti con uno stupore fiducioso e ingenuo. E pure a dargli motivo di risentirsi, la sua risposta era sempre un sorriso di limpida mansuetudine: come se in tutti gli abitanti della terra lui non vedesse che giustizia e benevolenza”[53].

“Era, difatti, un caso inaspettato, per me, che un marinaio mi facesse da madre. Lui possedeva, invero, delle qualità materne: con in più certe rudezze involontarie che mi attestavano la sua grandezza virile, e la fortuna di averlo amico, io piccolo come un ragno.
(Oh Daniele! Lavami gli orecchi
pèttinami i capelli anche se un po’ me li tiri.
Carezzami per isbaglio o Danieluccio
dei Danielidi)”[54].

Ma la stagione edenica di Arturo è destinata a precipitare anch’essa risucchiata dal maleficio di Aracoeli, quando il marinaio cederà al suo richiamo malioso. La tragedia più grande è consumata sotto gli occhi di Manuele, a cui ogni salvezza è stata ora sottratta, gettandolo in un odio furioso e dannato per Aracoeli e Daniele. Completamente svezzato alla brutalità, il processo inverso d’iniziazione ha qui il suo inizio, (se fino a questo momento per Manuele era sopravvissuto uno stupore ancora possibile), orchestrato dalla rovina precipitosa del susseguirsi incalzante degli eventi, dal giorno di trasgressione estrema durante la funzione religiosa in Chiesa, al panorama desolante della Quinta, che in un’ultima illusione estrema, più fittizia e consolatrice che non autentica, Manuele proietta nella sua ultima fantasticheria, chiedendosi:

“Quale sorta di patrizie stupende potevano essere queste Señoras della Quinta? Principesse reali? Sorelle della moda? Indossatrici ballerine? Dive dei rotocalchi? Fate?”[55].

Inizia l’epoca delle fughe per Manuele, nei dintorni della Quinta, e più tardi, dopo il soggiorno nella casa dei nonni a Torino, e dopo la morte di Aracoeli, dal collegio a cui viene affidato sul finire della guerra.
La morte di Aracoeli decreta l’inizio del delirio visionario di Manuele:

“E allora, è cominciata la vendetta di Aracoeli. Da morta, ora, essa mi faceva soltanto paura, e quasi orrore. (…) Io preferivo non sapere di quali colpe m’ accusasse; mentre poi, nel fondo, lo sapevo. Avevo già cominciato, infatti, fino dal mio ritorno in Piemonte, a difendermi dalla sua morte sfigurando e devastando il nostro amore”[56].

“Al tempo che ero niño, quando in via di scherzo mi diceva: «Duérmete que viene el COCO», Aracoeli non prevedeva che in futuro le mie stelle mi avrebbero veduto scappare da un COCO all’altro su questo pianeta. Dove una quinta, un palazzo, un cimitero, una baracca, una veste una presenza un’assenza una sagoma una parola mi assumerebbero il corpo di quel gigante irsuto, allungandosi in una schiera nemica, a cingermi d’assedio. E troppo, in séguito, avrei cercato il sonno, mio solo scampo dal COCO”[57].

Nella sua seconda fuga, Manuele torna, per l’ultima volta, a Roma: lì, rincontrata la zia Monda, ridotta a ridicola macchietta di una classe in cancrena, Manuele decide di fare visita al padre, il quale ritirato dalla brillante carriera, è ormai un fantoccio nelle mani dell’alcool. Di fronte alla sagoma sbiadita di Eugenio, Manuele prova ribrezzo, in un’atmosfera ingessata e impotente, che malamente tenta di celare il disfacimento. Abbandonata la tana paterna, ecco che il sipario cala sulle palpebre di Manuele, cogliendolo in un pianto improvviso. Un pianto d’amore e di eterna separazione, di mancanza, che con le parole mature del narratore trova espressione:

“Io sono stato sempre una fabbrica enorme di sogni. E se è vero che il nostro tempo finito lineare è in realtà il frammento illusorio di una curva già conchiusa: dove si ruota in eterno sullo stesso circolo, senza durata né punto di partenza né direzione; e se poi davvero ogni nostra esperienza, minima o massima, è LÀ stampata su quel rullo di pellicola, già filmata da sempre e in proiezione continua; allora io mi domando se anche i sogni si iscrivono in quel conto. E se il mio rullo, preso tutto insieme, risulterebbe un film dell’orrore, o una comica. Io però, in ogni caso, potrei solo piangere, a rivederlo; ne davvero potrei tornare a girarlo – misericordia (…) ”[58].


Davanti alla morte del padre, avvenuta anni dopo, Manuele non saprà più piangere, e saprà dare una spiegazione allora a quel pianto forte, infantile che lo sorprese un giorno più lontano nel quartiere di San Lorenzo:

“certi individui sono più inclini a piangere d’amore, che di morte”[59].

Arrivato al termine del suo viaggio a El Almendral, Manuele non trova nulla ad aspettarlo, solo un qualsiasi punto indifferente della terra, e alla sua estrema domanda, un vecchierello gli risponde:

“«È questo El Almendral»,. Insisto anche a gesti, per sapere dove si estenda il villaggio. E il vecchio non tarda affatto a capirmi. «Ma è questo, El Almendral», ripete. E stira le labbra, in una forma di sorriso fra ironico e tollerante, mentre di nuovo gira il braccio per l’aria intorno, a significarmi « È tutto qui»[60].


Se Aracoeli è l’altro volto dell’Isola di Arturo, è vero che forse la sua storia è meno penosa. Fin da subito siamo abituati a un narratore disilluso e che, onesto, nonostante la sua ossessiva ripetitività, ci accompagna nella lettura dove tutto è già detto. Le memorie arturiane, sotto la voce di un narratore che si autoinganna e che è ancora innamorato, sono a maggior ragione più laceranti nel momento del loro disincanto. La cornice procidana, se da un lato sostiene l’ilarità festosa della scrittura romanzesca, è dunque, infine solo una maschera, o meglio, un miraggio lontano chiuso nell’infanzia. E se la Morante più di vent’anni prima scriveva di Procida:

“Quella che tu credevi un piccolo punto della terra,
fu tutto”,


con Aracoeli sigilla le sue ultime parole:


El Almendral


“È tutto qui”.

Bibliografia

Pubblicazioni di Elsa Morante: racconti, romanzi, saggi, versi

Alibi, Milano, Longanesi, 1958.
Aracoeli, Torino, Einaudi, 1982.
Diario 1938, a cura di A. Andreini, Torino, Einaudi, 1989.
Il gioco segreto, Milano, Garzanti, 1941.
Il mondo salvato dai ragazzini, Torino, Einaudi, 1968.
La Storia, Torino, Einaudi 1974.
Le bellissime avventure di Caterí dalla trecciolina, Torino, Einaudi, 1942.
Lo scialle Andaluso, Torino, Einaudi, 1963.
L’isola di Arturo, Torino, Einaudi, 1957.
Menzogna e sortilegio, Torino, Einaudi, 1948.
Opere, 2 voll., a cura di C. Cecchi e C. Garboli, Mondadori, Milano 1988.
Pro o contro la bomba atomica e altri scritti, Milano, Adelphi, 1987.

Testi:

C. Cazalé Bérard, Morante, Weil: la scelta dell’attenzione e la verità della fiaba, Indirizzo Web: http://www.testoesenso.it/studiEsaggi/Morante_Weil.htm
M. Bardini, Morante Elsa. Italiana. Di professione, poeta, Pisa, Nistri-Lischi, 1999.
G. Massari, L’ isola di Elsa, in “Il Mondo”, 19 marzo 1957.
G. Rosa, Cattedrali di carta. Elsa Morante romanziere, Milano, Il Saggiatore, 1995.
C. Sgorlon, Invito alla lettura di Elsa Morante, Milano, Mursia, 1988.
S. Weil, Venezia salva, Milano, Adelphi, 1987.
Aa. Vv. a c. di A. M. Crispino, Oltrecanone, per una cartografia della scrittura femminile, Roma, Manifestolibri, 2003.
[1] E. Morante, Aracoeli, Torino, Einaudi, 1982, p. 46.
[2] Ivi, p. 47.
[3] Ivi, p. 52.
[4] E. Morante, Sheherazade, in Alibi, Milano, Longanesi, 1958.
[5] Della “pesanteur” parla Cesare Garboli nella prefazione di E. Morante, Pro o contro la bomba atomica e altri scritti, Milano, Adelphi, 1987. “Un pomeriggio di tanti anni fa, non ricordo più per quale piega presa dalla conversazione (eravamo soli seduti ad un caffè) Elsa Morante sospirò: ‘Vuoi sapere qual è il mio vero difetto? Proprio quello a cui nessuno pensa. Ma io so benissimo qual è… E’ la pesanteur’ ”(p. XI).
[6] Ivi, p. XII.
[7] G. Rosa, Cattedrali di carta. Elsa Morante romanziere, Milano, Il Saggiatore, 1995, p. 316.
[8] E. Morante, Aracoeli, cit., p.110.
[9] Cfr. E. Morante, Alla favola, in Menzogna e Sortilegio, Torino, Einaudi, 1948.
[10] Cfr. scritti di Simone Weil, noti alla Morante: l’Attenzione, lo sguardo portatore di grazia angelica, sottratto alla brutalità. Cfr anche S. Weil, Venezia salva, Milano, Adelphi, 1987.
[11] E. Morante, Dedica, in L’Isola di Arturo, Torino, Einaudi, 1957.
[12] E. Morante, Aracoeli, cit., pp. 120-121.
[13] Ivi, p. 123.
[14] Ivi, p. 124.
[15] E. Morante, Dedica, in L’Isola di Arturo, cit. Il complesso e intricato arabesco dei richiami intertestuali morantiani crea un mulinello gravitazionale attorno all’approdo di salvezza: “Quel piccolo punto della terra fu tutto” della Dedica, ne Il mondo salvato dai ragazzini diventa nella lirica Addio: “L’unica occasione d’incontrarsi era stata questo povero punto terrestre”.
[16] E. Morante, Aracoeli, cit., p. 109.
[17] E. Morante, Il mondo salvato dai ragazzini, Torino, Einaudi, 1968.
[18] “Ricordo che fino a una certa età (…) mi tenni vago all’idea che mussolini fosse un sostantivo comune plurale, il quale stava a indicare il genere i capi di governo: figurandomi che ogni paese avesse un proprio mussolino, allo stesso modo che doveva avere anche un re, una regina, o forse anche un papa”. E. Morante, Aracoeli, cit., p. 36.
[19] E. Morante, Aracoeli, cit., p. 129.
[20] Ivi, p. 9.
[21] Ivi, p. 22.
[22] “Allora, in un rigurgito, mi torna alla gola, e fin dentro la testa, il mio squallido malessere ordinario, a me troppo noto. Mi vedo qui, a correre su una pista tracciata in un deserto, fra miraggi assurdi, segnali falsi e scenari vuoti; e ancora una volta mi ripeto che le chiamate di Aracoeli sono state, esse pure, un falso segnale; e il mio povero, ultimo romanzo Andaluso una fabbrica d’ombre equivoche, per trastullo dei miei giorni vani. Dal mondo, in cui pretendo d’incontrate Aracoeli, a me sale la consueta unica risposta «Che cosa cerchi, e chi?! non c’è nessuno. E tanto vale che tu ti tolga gli occhiali. Da vedere non c’è niente».” Ivi, p. 129-130.
[23] Ibidem.
[24] Ivi, p. 107.
[25] Ivi, p. 9.
[26] Ibidem.
[27] Ivi, p. 50.
[28] Cfr. G. Massari, L’ isola di Elsa, in “Il Mondo”, 19 marzo 1957.
[29] C. Garboli, Introduzione, in E. Morante, L’isola di Arturo, cit., p. XVII.
[30] E. Morante, Aracoeli, cit., p. 171.
[31] Ibidem.
[32] I due svelano poi la loro identità con maligna malizia: “Noi non siamo soggetti da guerriglia / siamo rampolli d’ottima famiglia / io visconte / lui conte / e non andiamo al fronte. / Lui alienato io alienista / e dunque c’intendiamo a prima vista / e insieme ci aggiustiamo / per l’amore cristiano. / Niente paura! Male non facciamo! / non siamo TIGRI ma TROIE siamo!”. Ivi, p. 163.
[33] Cfr. C. Cazalé Bérard, Morante, Weil: la scelta dell’attenzione e la verità della fiaba: “C’è indubbiamente anche nei romanzi di Elsa Morante una “lingua nuziale”: è quella del figlio con la madre. Manuele parla esplicitamente della lingua di Monte Sacro (…) o meglio di Totetaco, secondo la lingua segreta amorosa che l’unisce ancora a sua madre (…) un linguaggio che ricompare brevemente, per un fragile miracolo, dopo che la morte ha fatto irruzione nel protettivo nido familiare: «Spesso mi stringeva e mi baciava, vezzeggiandomi con un suo linguaggio divino, mischiato d’italiano e di spagnolo, e che non si udiva più fra noi, dai tempi di Totetaco». Ma la “lingua nuziale” rimarrà come traccia ormai morta e desueta di un paradiso perduto”. Firenze-Parigi 2002-2003.
Indirizzo Web: http://www.testoesenso.it/studiEsaggi/Morante_Weil.htm
[34] G. Rosa, Cattedrali di carta. Elsa Morante romanziere, cit., pp. 244-245.
[35] E. Morante, Aracoeli, cit., pp. 97-98.
[36] Ivi, pp. 100-105.
[37] C. Sgorlon, Invito alla lettura di Elsa Morante, Milano, Mursia, 1988.
[38] E. Morante, Aracoeli, cit., p. 107.
[39] Ivi, p. 121.
[40] Ivi, pp. 107-108.
[41] Ivi, pp. 25-26.
[42] Ivi, p. 124.
[43] “Me ne resta la visione di un grande vascello imbandierato, dove mio padre, raggiante, in alta uniforme estiva bianca e oro, ci fa gli onori di casa, fra bocche di cannoni, vernici candide e metalli lustrati meravigliosamente”. Ivi, p. 39.
[44] Ivi, p. 120.
[45] Ivi, p. 134.
[46] Ivi, p. 183.
[47] Ivi, p. 202.
[48] Ivi, p. 236.
[49] Ivi, p. 239.
[50] Ivi, p. 238.
[51] Ivi, pp. 243-244.
[52] G. Rosa, Cattedrali di carta. Elsa Morante romanziere, cit., p. 336.
[53] E. Morante, Aracoeli, cit., p. 218.
[54] Ivi, p. 225.
[55] Ivi, p. 281.
[56] Ivi, p. 300.
[57] Ivi, p. 326.
[58] Ivi, p. 291.
[59] Ivi, p. 328.
[60] Ivi, p. 309.

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